mercoledì 13 aprile 2011

Notte ventosa all'Isola

E' una notte ventosa quella che ci aspetta fuori dall'Isola. Le impalcature intorno ai grattacieli in costruzione fischiano battono suonano come se fossero abitate da legioni di operai indaffarati. Le bandiere appese alle gru garriscono forte. Nell'aria turbinano fiori primaverili strappati dai rami degli alberi e portati dal vento. Il lavoro di preparazione sul testo delle Città Invisibili è già una lettura interpretata e la maestra ne fa una parafrasi attenta, quasi fermandosi ogni poco per commentare e allargare lo sguardo. Difficile riportare tutto quanto dice e spiega, ma trattengo qualcosa e la faccio mia, notando la sua attenzione nel testo di Calvino per gli aspetti di struttura e di relazione, indipendentemente dalla sostanza narrativa, che può cambiare e che in fondo è poco più che un pretesto, così come un pretesto sono gli attori e il materiale scenico, se non per essere superati dalla relazione che li separa e li unisce davanti al pubblico. Basta un piccolo rilievo e la maestra si lascia andare e si concede a un approfondimento sulla sua poetica, sul suo modo di interpretare quel testo e di riappropriarsene nella lettura da cui sono nate le prime versioni dello spettacolo e che una nuova lettura collettiva cercherà di arricchire. Si concede e tradisce l'entusiasmo con cui si accosta nuovamente a quell'opera, chiamata a farlo non dagli attori ma da persone alle quali non deve nulla se non il comune sentire per il valore di un lavoro teatrale.

giovedì 4 marzo 2010

ops.....

chiedo scusa a tutto il blog e in particolare a Fabio... ho sbagliato blog... dovevo pubblicare su quello della tragedia scozzese.....
comunque sono due contributi carini ... almeno la poesia ;)

e il video che forse vi avevo già mandato

non so come farlo comparire... Fil ci pensi tu?
intanto metto il link

http://www.youtube.com/watch?v=y2IzPmKNiQs

Gli uomini vuoti - Eliot

C'è qualche passaggio che mi fa pensare alla Lady nel suo momento finale.
Per chi ha visto la merenda dei generali, quello che dicevamo in coro, in particolare....


Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Che appoggiano l'un l'altro
La testa piena di paglia. Ahimè!
Le nostre voci secche, quando noi
Insieme mormoriamo
Sono quiete e senza senso
Come vento nell'erba rinsecchita
O come zampe di topo sopra vetri infranti
Nella nostra arida cantina

Figura senza forma, ombra senza colore,
Forza paralizzata, gesto privo di moto;

Coloro che han traghettato
Con occhi diritti, all'altro regno della morte
Ci ricordano - se pure lo fanno - non come anime
Perdute e violente, ma solo
Come gli uomini vuoti Gli uomini impagliati..



II
Occhi che in sogno non oso incontrare
Nel regno di sogno della morte
Questi occhi non appaiono:
Laggiù gli occhi sono
Luce di sole su una colonna infranta

Laggiù un albero ondeggia
E voci vi sono
Nel cantare del vento
Più distanti e più solenni
Di una stella che si spegne.

Non lasciate che sia più vicino
Nel regno di sogno della morte
Lasciate anche che porti
Travestimenti così deliberati
Pelliccia di topo, pelliccia di cornacchia, doghe incrociate
In un campo
Comportandomi come si comporta il vento
Non più vicino -

Non quel finale incontro
Nel regno del crepuscolo



III
Questa è la terra morta
Questa è la terra dei cactus
Qui le immagini di pietra
Sorgono, e qui ricevono
La supplica della mano di un morto
Sotto lo scintillio di una stella che si va spegnendo.
E' proprio così
Nell'altro regno della morte
Svegliandoci soli
Nell'ora in cui tremiamo
Di tenerezza
Le labbra che vorrebbero baciare
Innalzano preghiere a quella pietra infranta.



IV
Gli occhi non sono qui
Qui non vi sono occhi
In questa valle di stelle morenti
In questa valle vuota
Questa mascella spezzata dei nostri regni perduti
In quest'ultimo dei luoghi d'incontro
Noi brancoliamo insieme
Evitiamo di parlare
Ammassati su questa riva del tumido fiume
Privati della vista, a meno che
Gli occhi non ricompaiano
Come la stella perpetua
Rosa di molte foglie
Del regno di tramonto della morte
La speranza soltanto Degli uomini vuoti.



V
Qui noi giriamo attorno al fico d'India
Fico d'India fico d'India
Qui noi giriamo attorno al fico d'India
Alle cinque del mattino.

Fra l'idea
E la realtà
Fra il movimento
E l'atto
Cade l'Ombra

Perché Tuo è il Regno
Fra la concezione
E la creazione
Fra l'emozione
E la responsione Cade l'Ombra

La vita è molto lunga
Fra il desiderio
E lo spasmo
Fra la potenza
E l'esistenza
Fra l'essenza
E la discendenza
Cade l'Ombra

Perché Tuo è il Regno
Perché Tuo è
La vita è
Perché Tuo è il

E' questo il modo in cui finisce il mondo
E' questo il modo in cui finisce il mondo
E' questo il modo in cui finisce il mondo

Non già con uno schianto ma con un lamento.

martedì 10 novembre 2009

Improvviso per due solisti e due cori

Due gruppi e due solisti. I campioni si fronteggiano. Devono confrontarsi sempre più aspramente fino a raggiungere il massimo livello possibile di scontro verbale, senza mai toccarsi, senza mai attraversare la linea immaginaria che li divide. Il motivo del contendere è dato, senza pretese di realismo o di esaustività (l'amante, il parcheggio, il rumore, la carriera), ma è solo un pretesto per sperimentare l'aumento di energia. Non è realistico. Funziona così. Il campione dice la battuta (gesto e parola, possibilmente) e il suo coro la ripete. Solo dopo questa ripetizione, che si vuole unisona, il campione avversario può rispondere alla battuta e chiamare a sua volta i suoi alla ripetizione. Si parte ad alta voce, si finisce urlando. I solisti si alternano fino a farsi coro. Difficile andare a dormire, dopo: l'energia rimane in circolo.

giovedì 29 ottobre 2009

A occhi chiusi

Arrivo tardi, ancora proditoriato da una violenta giornata sui tasti, che battono di approcci architetturali multilinea per strumenti finanziari personalizzati su mercati regolamentati. Mi invitano a un riscaldamento con massaggio. Distensivo. Un poco di azione e reazione. Camminare percorrendo lo spazio della sala. Si percorrono linee longitudinali, ortogonali o diagonali, mai curve, mai in cerchio. Aperti, inspirare, scegliere una direzione, camminare, fermarsi e in qualche modo richiudersi per poi ripartire. Mai scontrarsi, mai lasciare spazi vuoti ma continuare a percorrere. Si comincia liberi, ma poi ci si libera anche della luce, si chiudono gli occhi e si continua a camminare, anche lentamente, ma con forza, senza andare a tentoni e senza protendere le mani in avanscoperta. Se c’è un contatto, si cambia direzione. Fino a che l’indicazione non cambia. Quando incontrate qualcuno cercate di entrare in contatto con l’altro toccando le palme delle mani. Lo spazio di una canzone basterà, seduti, a conoscersi, toccandosi viso spalle e braccia. Prima uno poi l’altro a turno. Dopo essersi conosciuti ciecamente (alzi la mano chi ha riconosciuto il compagno), i due si alzano e uno può aprire gli occhi. Dovrà essere maestro di volo e accompagnare l’altro in evoluzioni aeree nello spazio dell’aula, evitando accuratamente gli scontri e conquistandosi la fiducia del cieco rimasto. L'elefante e la farfalla si librano in volo con responsabilità e fiducia, prima esitante, poi più salda e infine, veramente, cieca. Le luci passano attraverso gli occhi chiusi, con un calore rosso. E' la musica a decidere il ritmo e alla baldanza ostentata subentra una certa ritrosia. Dura superare la paura del muro ma il desiderio di assecondare prevale. Da elefante guido cogliendo un poco di riso: buon volo. Scrivete le vostre impressioni o le immagini che vi nascono in mente. Dai fogli mischiati nasceranno due improvvisazioni di gruppo sul tema delle giostre e del deserto.
Stare in ascolto aiuta la creatività. Se mi preocupo di meno di quello che devo inventare e mi lascio all'ascolto degli altri posso rubare, sviluppare, prendere e cambiare, e se l'altro dice una cosa, tu ci devi stare.

venerdì 23 ottobre 2009

Azione e reazione

Azione e reazione. In cerchio. La maestra al centro accenna un movimento ed emette un suono. Il gruppo ripete. Si crea un alfabeto. Due buffetti sulla guancia. Il piede destro pesta a terra. Un saltino, le braccia si incrociano. Sì sì. Sessè. No no. Eh? Oh! Uè uè. Tz. La lala la la. Lala la lala la la. Unz unz. Tuku. Slurp. Bleah. Dita che schioccano. Gesto dell'ombrello. Bacino. Ripetere insieme; in caso di insicurezza fidarsi del gruppo e recuperare; cercare l'unisono, eventuamente aspettare.
Variazione. Azione e reazione contraria, secondo un fraseggio di opposti. Più difficile. Anche in versione plurilingue.
Rinforza la memoria, il senso del gruppo e l'ascolto.

venerdì 13 febbraio 2009

Prima della villeggiatura

Fine settimana con Maria Pia e la Villeggiatura. Torno a casa stanco dopo altre nove ore di laboratorio sulla Villeggiatura, che si succedono alle nove di sabato. Fine settimana di lavoro teatrale intenso e duro, filando a ripetizione tre atti con battute, entrate, uscite e piccole coreografie. Non posso dire stanco ma felice, perché in realtà già è viva la preoccupazione per il debutto. Nemmeno posso essere del tutto soddisfatto perché di errori ce ne sono stati. Forse ciò che è appagante è proprio l’esperienza di un lavoro su un testo lungo, con tanti attori, con parti diverse, un lavoro che richiede applicazione, freddezza, intuito, ascolto, riflessi pronti e ovviamente memoria, oltre naturalmente alla buona pronuncia, all’emissione ben calibrata, alle intenzioni vere. Maria Pia ci segue con attenzione, inforca gli occhiali, resiste per un poco seduta in cattedra, ma poi si alza, sale sulla sedia per guardare meglio, entra in scivolata per sistemare un tavolino. Poi si siede ancora e mentre con una mano scorre i fogli del copione, con l’altra prende appunti concitati.
All’uscita indugio ancora con i compagni, muto ma incapace di staccarmi da qualcosa di così coinvolgente nonostante la fatica e un livello di attenzione necessario da far venire il mal di testa. Forse non sarà lavoro vero, ma credo che ci somigli molto.

martedì 3 febbraio 2009

Teatranti con la valigia

Quelli che lavorano con Maria Pia li riconosci dalla valigia. Una valigia pesante, piena di giacche, di drappi, di pizzi. Escono dal cancello di via Savona e si dirigono verso casa trascinando le loro masserizie. A volte spunta una piuma o un ciuffo di parrucca. Oppure trasformano un bar in una sala d'aspetto: siedono, fanno due chiacchiere in attesa di un treno che li porti in scena. Mai avuto tanta roba per un lavoro teatrale, come se fosse un lungo viaggio. Domenica alle prove la maestra ostentava tranquillità: bravi, continuate così che ce la potete fare.

lunedì 19 gennaio 2009

L'elefante e la farfalla

Un bel lavoro che Maria Pia ci ha insegnato riguarda la fiducia e la responsabilità, verso chi guarda e verso i compagni. Inizia in coppia. C'è chi chiude gli occhi e si affida a chi gli occhi li tiene aperti. Hanno un solo punto di contatto: una mano appoggia sull'altra, senza stretta, senza trattenerla. Chi vede si muove nello spazio, seguendo una musica; chi non vede si lascia portare, dalla musica e dalla sua guida. Deve aver fiducia nella guida, deve sentirla. Chi guida ha la responsabilità di questa fiducia e se la deve conquistare. Può assomigliare a un balletto, oppure a un viaggio. Ben presto non si ha più la minima idea di quale punto della sala si stia occupando e ci si perde nei propri passi incerti. Chi riesce ad abbandonarsi prova un'emozione più intensa, ma all'inizio si ha paura di andare a sbattere contro una colonna. Poi ci si scambia i ruoli. Il lavoro è ancora più interessante quando al cambio si cambia anche partner. Chi non vede viene lasciato fermo dalla guida migrante e viene raggiunto da un'altra mano, dal tocco diverso, più o meno salda, più o meno sudata, più o meno pelosa. Chi ne ha voglia si esercita nel tentativo di decifrare l'identità della nuova guida, ma poi la cosa perde d'interesse. Per chi guida, a ogni cambio la sfida di trovare un nuovo elefante da guidare, o sarà una nuova farfalla? Quando gli occhi si riaprono e si scopre l'identità dell'ultima guida, difficile resistere a un sorriso. Sorridi della tua ignoranza e della tua fiducia.

venerdì 9 gennaio 2009

Sette stati di tensione

Quanto di emozioni e saperi si è perso di questo TP Lab non seguito dal Blog, forse perché più impegnativo dei corsi precedenti, forse perché è un laboratorio, forse perché Carlo manda quelle e-mail così complete. Questo però vorrei salvarlo, perché deve far parte di di un bagaglio d'attore e non lo voglio dimenticare. Si chiama i sette stati di tensione.
Il primo è "fattone": solo le gambe reggono a malapena in piedi; il resto del corpo si trascina molle rilassato ed ebbro.
Il secondo è "fonzie": gambe molto molleggiate ed elastiche, spalle rilassate, ma già energico e convinto di essere al centro del mondo.
Il terzo è la passeggiata neutra, guardando pigramente le vetrine o una mostra, ma senza indugiare, senza fretta ma senza farsi distrarre troppo.
Il quarto è la camminata del milanese che si reca in ufficio: passo svelto, collo rigido, sguardo teso. Il quinto è la vigilanza guardinga, il "chi è, chi va là?" delle sentinelle sugli spalti di un castello danese: passo svelto, un momento di sorpresa e disorientamento, lo sguardo cerca una provenienza, inquieto.
Il sesto è la paura, va eseguito di corsa, con scatti interrotti e ripetuti, cambi di direzione: tensione nelle gambe, nel collo, negli addominali.
Il settimo è la tensione assoluta: ogni muscolo si deve tendere, dai piedi alla fronte, dal viso al collo, dalla schiena ai polpacci. Faticosissimo, in questa condizione ogni movimento provoca dolore. Si sta quasi fermi ma in preda a una vibrazione disperata.
I sette stati sono come una scala che bisogna imparare ad eseguire rapidamente con cambi repentini, imparando a dosare tensione e respirazione per dare al corpo una presenza non priva di senso nel passaggio da una condizioen all'altra. Un nuovo regalo di questo laboratorio e di Maria Pia.

venerdì 3 ottobre 2008

Maria Pia Pagliarevic

E' minuta e determinata, Maria Pia, e dico Pagliarevic perché preferirei lavorare su Checov. Stringe denti e occhi mentre ci osserva un po' timidi nel fare i primi esercizi. Non ama le tute da ginnastica e preferirebbe un abbigliamento più dedicato al lavoro teatrale. Piantata saldamente sui piccoli piedi chiede spirito di servizio, puntualità, attenzione e creatività. Non siate piccoli attori, ci esorta: mancano 100 ore a San Valentino. Tra le cose mai viste il lavoro con i bastoni, la sua respirazione, ancora diversa, e l'uso dello sguardo negli esercizi a due, ma questo è solo un accenno.

lunedì 7 luglio 2008

Luciano Colavero: bello scientifico e bello organico

Luciano Colavero è un tipetto dall’aria sveglia e misurata, vestito di bianco, con i capelli cortissimi, il pizzetto, l’orecchino e un sorriso deciso a denti bianchi e regolari. Ama le scarpe a punta, ma a lezione è rigorosamente a piedi nudi. Con lui s’è fatto un seminario di un fine settimana, al Faro teatrale. Per scaldarti ti propone piacevoli esercizi di training, la camminata a diverse velocità, il gioco dello specchio, l’incontrarsi incrociandosi, l’abbraccio, il saluto a culata. Ti fa capire che lui è un tipo tranquillo che non alzerà mai la voce, però allo stesso tempo sai che anche un gesto apparentemente innocuo come asciugarsi la fronte o sistemarsi i pantaloni lui lo considera una distrazione inutile, figuriamoci chiacchierare o andare in bagno.
Dopo averti fatto sudare per bene passa a spiegare il suo metodo, basato sui cosiddetti “attèmi”, parola che sul calco di parenti più noti come “fonema” e “grafema”, indica l’unità minima dell’azione scenica, un gesto, anche piccolo, come uno sguardo, unito o meno a una battuta. Gli attemi, potrebbero anche vivere da soli, dato che sono unità minime, però in natura si trovano prevalentemente in serie più meno lunghe che nella teoria di Luciano si chiamano “Sistemi” e che ricordano abbastanza le scene, con una differenza, finiscono sempre al punto di inizio, si prestano cioè ad essere eseguiti all’infinito, in loop. Ora, in un sistema accadono delle azioni sceniche secondo una sequenza predefinita che definisce un equilibrio iniziale. Lo schema però può essere modificato, entro certi limiti, purché ritrovi uno stato di equilibrio. Noi abbiamo lavorato su tre sistemi diversi: i primi due di sedici attemi/battute ciascuno, presi da Aspettando Godot di Beckett e da l’Amante di Pinter, da giocare a coppie, più un sistema collettivo da fare in quindici, senza battute.
In una prima fase, chiamata Installazione, gli attori imparano la sequenza degli attemi fino a renderla fluida. È come una coreografia: il maestro conta, scandendo i vari passaggi con brevi colpi su un tamburello, e volendo si può anche contare un numero fisso di battute ritmiche tra un attema e l’altro. Nella seconda fase, detta della Modulazione, si possono variare alcuni elementi: spazio, tempo, energia, intenzione. Infine nella fase di Trasgressione gli attemi si possono omettere, rubare, ripetere, modificare: in pratica è una sorta di improvvisazione regolata, in cui si cerca di trovare idee interessanti forzando gli schemi ma senza perderne il riferimento. È la fase creativa, in cui gli attori in scena mischiano le carte e da cui possono scaturire suggerimenti preziosi per la regia. In questa fase l’attore diventa creativo e drammaturgo. E infatti l’argomento del seminario è la drammaturgia dell’attore nel teatro del novecento.
Quanto può durare il lavoro su un singolo sistema? Anche più di un’ora. Prima si ripetono meccanicamente i gesti definiti dagli attemi, poi li si modula a suon di musica, quindi si aggiunge il testo, poi si passa alla trasgressione. È un gran lavoro, molto fecondo, al termine del quale il montaggio di una scena può diventare la semplice scelta della sequenza più efficace tra quelle osservate.
Ognuno di noi ha portato a termine il suo lavoro sul sistema. Alla fine ci si ritrova in cerchio a commentare quanto fatto. Infine un’ultima camminata sui legni dell’aula. Da dove viene questo metodo mezzo matematico e mezzo organicistico? Da un regista spagnolo il cui nome suona più o meno così: finis terrae. In effetti mai una volta che Luciano una cosa l’abbia inventata lui. Per ogni esercizio che ti propone, ti ricorda che l’ha pensato un americano, un francese o uno spagnolo trent’anni fa, e se chiedi ti dice anche la bibliografia. Non tutti hanno la medesima deferenza verso i propri maestri e le proprie fonti. Un esempio? Do it (“Jones, 1963”). Esercizio che consiste nel prendere un volontario, metterlo fuori dalla porta e decidere che lui dovrà fare una certa cosa. Poi il volontario rientra in aula e la classe deve fargli fare quella cosa senza dirgli niente, senza fargli gesti descrittivi, senza costringerlo a farla meccanicamente, con la sola forza del pensiero (prana, qui c’è di mezzo la sapienza indiana) e dei gesti. Con noi ha quasi funzionato…. Altro esempio? Repetition (“Morris, 1972”). Due volontari seduti uno di fronte all’altro si guardano negli occhi. Il primo fa una constatazione, come “hai la maglietta bianca”, l’altro deve ripetere, e si ripete all’infinito, stando attenti però a cogliere ogni minima variazione di tono, intensità, intenzione. Se sbagli ricominci. Serve a creare relazione, da usare quando due attori dicono le battute senza rivolgerle realmente l’uno all’altro.
Prima di lasciarci, il maestro dà un’ultima consegna: camminate lentamente, chiudete gli occhi e rallentate fino a fermarvi. Poi senti due braccia che ti guidano verso una nuova posizione fino a che senti il contatto con un altro corpo sudato. Quindi senti che altri corpi si avvicinano. Parte una musica struggente: abbracciatevi più stretti che potete. Stiamo componendo una scultura vivente (forse Luciano la definirebbe “aggregato sistemico di soggetti polimorfi”) e quando riapriamo gli occhi scopriamo quali erano i compagni a cui eravamo abbracciati. Ancora in cerchio per un ultimo reciproco applauso con inchino, gli occhi lucidi per l’energia spesa e le emozioni accumulate. Grazie Luciano per queste due giornate di lavoro, bello scientifico e bello organico e anche per quest’ultima, bellissima e indimenticabile “ruffianata”, che rende più pungente la nostalgia per le due giornate passate insieme a te e ai compagni.

mercoledì 25 giugno 2008

Spettacolo fatto, desiderio netto

A due giorni di distanza dal nostro spettacolo provo a descrivere quello che provo: un sentimento di liberazione, la conquista di un traguardo atteso, costruito insieme, con l’aiuto e la guida di Gaia e Corinna. E insieme un senso di vuoto per un percorso che volge alla conclusione, dopo i tre anni regolamentari al Libero. Come ogni anno i compagni si disperderanno dopo qualche aperitivo estivo e una pizza celebrativa, e forse un altro anno non ci sarà per conoscerne altri.
Dello spettacolo ricordo la luce grigia, quasi fumosa, in cui intravedevo il pubblico, mezzo accecato com’ero dalle luci su di me. Ricordo le lunghe “guardie” in divisa e berretto, nel mio angolino, ora a destra e ora a sinistra, che mi hanno consentito di vedere tutto lo spettacolo direttamente dalla scena. Mi vengono in mente le corvée per cambiare i cartelli con le fermate; le soste al centro del palcoscenico sulla croce di nastro adesivo per dire la mia parte; i fasci di luce che circondavano le figure dei compagni in battuta; gli applausi finali e quel varco nella fila degli attori, rimasto aperto per me, ultimo a raccogliere il saluto del pubblico; i complimenti dei compagni del primo anno venuti a vedermi, quelli di Gaia. E poi la vanità di uscire per strada con gli occhi ancora cerchiati di nero e ordinare una birra con aria stanca e un po' di sussiego.
Uno ad uno i compagni fanno ritorno a casa e così faccio anch’io, dopo averli salutati più a lungo del solito. A farmi compagnia un mal di testa, nato tra birre e sigarette scroccate conversando con l'autore, e un senso di spossatezza, perché è stato bello e perché è già finito. Su quel palco, o su un altro, poco importa, ci voglio tornare. È un desiderio netto e pulito, il più bel regalo ricevuto da maestri e compagni incontrati in questi anni alla scuola di via Savona.

mercoledì 18 giugno 2008

La parola ai bagarini


"Senti volevo venire a vedere il tuo spettacolo ma è tutto esaurito, non avresti dei biglietti eventualmente?" Così ieri sera ho saputo che abbiamo già raggiunto l'obiettivo di riempire il teatro: ora si tratta di farlo venire giù.

mercoledì 11 giugno 2008

Il Gabri ha vinto un premio


Giulio Guanti era seduto nel buio della sua Opel Tigra da più di un’ora.
Fari spenti, riscaldamento al massimo, gli occhi ridotti a due fessure. Lattine di birra vuote e sigarette spente gli facevano compagnia nell’abitacolo. Aveva parcheggiato in una via deserta, dietro l’aeroporto. Guardò l’orologio. Le quattro meno un quarto...


E' l'esordio del suo ultimo racconto, vincitore del Premio speciale città di Milano per Subway 2008.
Se non trovate il libretto in metro, potete leggere qui il racconto completo.

mercoledì 4 giugno 2008

Ora pro nobis

Una stretta viuzza del centro. Da una finestra al secondo piano si sente un "ora pro nobis". Sul citofono neppure un nome. Non si fidano. Non mi resta che chiamare: "sorelle!" Mi aprono subito e mi offrono una birra. Mica male per cominciare. Sono loro con Corinna. Resto in ascolto delle imprese delle suore dell'ordine della concordia alimentare. Faccio anche la parte prima del passante miserevole e poi di Redento, così la Chanty mi strapazza per benino. Mentre loro fumano sul balconcino Corinna mi concede la mia parte per ben due volte. Ancora una volta un vuoto di memoria nella seconda replica, a metà, ma nel complesso bene. Rallentare bisogna, contare fino a cinque tra una battuta e l'altra nel finale. Poi riprendono loro e quasi filano. Un martedì sera rubato che però aiuta. Dopo il lunedì repubblicano pesa meno non aver posato i piedi sui legni dell'aula: grazie Alessandra per aver organizzato e per aver accettato un infiltrato nelle segrete mura dell'ordine.

Camera ardente

Uno di questi giorni ho speakerato per due amici.
Siamo agli studi di una Radio, in una stanzetta calda e chiusa: l'ora è tarda.
Registrazione per il film su un'associazione di volontariato che celebra un anniversario.
Tono paterno e caldo, da citizenship.
Dopo un po' di prove loro sembrano soddisfatti.
Chiamano il fonico per sicurezza, vogliono una conferma sulla qualità della registrazione.
Viene uno.
Poi ne viene un altro.
Da dietro il vetro li vedo confabulare.
Poi il secondo fonico irrompe nel mio loculo
si siede praticamente sulle mie ginocchia e chiede:
"Scusa ma ti è morto il gatto?"
Mantengo il mio aplomb e cerco di farla più brillante, ma mi sento un po' come Charlie Brown sul suo Pitcher's Mound.
Loro confabulano ancora e poi il fonico se ne va, con l'aria di dire "Contenti voi..."
Ancora qualche rifacimento in varie salse (ma forse la salsa è sempre quella) e tra mille ringraziamenti vengo congedato.
Ho la sensazione che se il bilancio lo consentisse cambierebbero speaker.
Aspettiamo di sentire il parere del cliente.

domenica 25 maggio 2008

Sabato di prove

Un sabato mattina di prove con Gaia, per arrivare più "montati" alla lezione del lunedì. Devo dire che la cosa mi ha emozionato, un po' perché è stato quasi come una lezione privata, con Gaia sul divano di casa e noi con le suole sul tappeto: Alessandra, Davide e io, + Corinna e Stefano come spettatore. Prima rollergirl con il suo regista e poi il capostazione in apertura e chiusura. Ci voleva.

mercoledì 30 aprile 2008

28 aprile: un rumore, un rematore, un rugbista!


Gaia è sempre più magra ma non perde la sua abituale forza mitopoietica. Ci diamo al montaggio a partire dalla primissima scena delle belle statuine, che io devo animare, prima con sorpresa e poi con superiorità burattinaia. Dopo questa breve intro è la volta del politico: Stefano, esasperato dalle correzioni, strabuzza gli occhi, crolla il crapone e strappa risate. Con rollergirl si sfiora un'idea di quello che sarà lo spettacolo. Già senza copione, il regista e la star, sorretta dai due boys, ci danno dentro e convincono. Chiudono le giornaliste a voi studio. Lo spettacolo sarà prestino, il 23 giugno. Un poco di apprensione, ma devo dire che l'anno scorso ero più preoccupato.

martedì 22 aprile 2008

BlogCronaca 21 aprile 2008


Back to blog. Maestra ferma ai box, lezione con Corinna, che torna ai fondamentali vocali (quadrato della respirazione e fiato-voce fiato) e ci favorisce uno dei suo nuovi esercizi di canto con pianola. Prima è la motoretta fonata con le labbra sostenute dalle dita su tre note ripetute in scala prima più acuta e poi più bassa. Poi lo “nei-nei” ripetuto con il medesimo accompagnamento. Al termine voce ben calda per la lettura che segue. Dopo la pausa siamo alle prime ripetizioni in piedi senza testo per chi può: partono le suore, quindi rollergirl con il suo rugbista, poi il politico ingofilo, per chiudere con le giornaliste d’assalto alla vecchia.

Raccomandazioni su memoria e tempo che è passato (molto) e che ci resta (poco). Le prossime lezioni da non mancare.

martedì 1 aprile 2008

Le tre grandi botte dell'umanità

Erano i giorni prima della Pasqua e Gaia parlava ai suoi allievi e diceva loro queste parole. "Tre grandi botte ha ricevuto l'umanità nei tempi moderni. L'umanità credeva di essere al centro dell'universo ma Galileo mostrò che era vero il contrario. Fu la prima botta. L'umanità credeva di discendere da Dio ma Darwin mostrò che essa discendeva dalle scimmie. Seconda botta. L'umanità credeva di avere un intelletto presente a se stesso, ma Freud mostrò che esisteva un inconscio. E fu la terza botta. Ora queste botte sono state salutari. Se noi fossimo sempre stati al centro dell'universo, forse questo universo non l'avremmo mai visto. Se noi discendessimo direttamente da Dio non sapremmo nulla di evoluzione.
La stessa cecità affligge chi sta al centro del palco, perché al centro si è ciechi. Per questo occorre imparare ad ascoltare, non solamente con le orecchie ma con tutto il corpo e con la schiena. Per questo si parla tanto a lezione di quanto sia importante l'ascolto e di quanto conti sapersi decentrare, per recuperare un pizzico di sensibilità. Altrimenti chi sta al centro non ha percezione e comincia a pensare 'cosa diranno di me', a sentirsi un pirla, e quindi a diventare imbranato, ad assumere le faccettine, che sono l'espressione del giudizio di pirla che sente su di sé. Tutto questo richiama la responsabilità dell'ascolto, soprattutto per chi sta al centro, che non deve mollare mai la tensione, per non cadere nel pregiudizio psicologistico."
Così parlava Gaia quel giorno, e gli allievi pensavano alle parti che erano state assegnate e c'era chi era soddisfatto e chi meno, e chi ancora attendeva di sapere.

martedì 11 marzo 2008

Il pescatore di Tobago



Questa mattina mi sono svegliato con un canto in mente. E' la nenia che ci avvolge durante il riscaldamento, e di cui ormai Corinna è ministra paziente. Ignoro di chi sia, mi fa pensare a una vecchia di Trinidad che separa il grano dal loglio o a un giovane pescatore di Tobago che ripara le reti la sera. Forse è una zia caraibica che canta la ninna nanna. A noi serve per rilassarci e per caricarci prima delle note di Passion, sulle quali la voce ci impone di alzarci senza esitare. Non ero mai riuscito a ricordarmi quel motivo prima d'ora. Forse la dose domenicale e il rinforzo di ieri hanno azionato i meccanismi della memoria. Ripensandoci sono state più di otto ore di lavoro senza risparmio, con la concentrazione per muoversi al rallenti che lascia spossati, con una "prima" lettura delle scene appena rese note che è già impegnativa, approfondita, esigente e divertente. Siamo stati automi dalla centralina intermittente, abbiamo cantato per folle in attesa, abbiamo cercato l'unisono con convinzione. Qualcosa là in fondo mi avverte di una tensione lontana e allora la nenia soccorre, la voce sussurra il suo calmo parlare. Prima di alzarci possiamo ancora sentire il respiro che lava via i nodi a cui siamo legati.